Il carmagnolese Emanuele Borsotti, da credente a monaco

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Intervista a Emanuele Borsotti, monaco carmagnolese, autore di svariati testi teologici: «non c’è vita cristiana senza vita umana».
Emanuele Borsotti,

Emanuele Borsotti nasce a Carmagnola nel 1978. Dopo gli studi in lettere classiche e in teologia a Torino, si specializza in teologia sacramentaria e liturgia a Parigi, dove prosegue le sue ricerche nell’ambito della Scuola dottorale.

Ha pubblicato “Nudità della parola. Le sette parole di Gesù in croce” (2018) e curato
l’antologia patristica “Un solo corpo. Mistagogia della liturgia eucaristica attraverso i testi dei padri latini” (2016), una raccolta di commenti dei Padri della Chiesa latina e degli autori ecclesiastici medievali sull’eucarestia. Nel 2007 entra a far parte della comunità del Monastero di Bose, vicino a Biella, dove dal 2011 riveste il ruolo di bibliotecario. Tra le sue ultime pubblicazioni “Una gioia provata. L’uomo delle beatitudini”.

Fino a quando ha vissuto a Carmagnola? Ci torna ogni tanto?
«Ho abitato a Carmagnola fino al 2007, per circa 28 anni. In genere ritorno almeno una volta all’anno, per fare visita alla mia famiglia

Che cosa rappresenta per lei Carmagnola?
«Carmagnola rappresenta il radicamento, l’origine. Carmagnola è stata innanzitutto lo spazio-tempo della mia vita familiare, degli affetti, della formazione, dall’asilo Sant’Anna al liceo classico “Baldessano Roccati”, e in seguito durante gli anni dell’università nel quotidiano pendolarismo fra Torino e Carmagnola. E poi, naturalmente, Carmagnola è stato il luogo delle mie prime esperienze ecclesiali nell’ambito parrocchiale. Per dirla con una citazione di uno scrittore turco: “Si lasciano mai le case dell’infanzia? Mai: rimangono sempre dentro di noi, anche quando non esistono più”. Ecco, Carmagnola mi è restata dentro.»

Come e quando è arrivata la chiamata? È successo a Carmagnola?
«Non parlerei di un momento puntuale, di un evento improvviso che abbia segnato un “prima” e un “dopo”; preferisco l’immagine di un cammino, di un itinerario: è lo snodarsi di una biografia, fatta di volti, nomi, persone, eventi, incontri, ricerche, studi, discernimento e scelte. Naturalmente le esperienze vissute in Collegiata e poi a San Michele, ai tempi in cui don Domenico Cravero era parroco, hanno lasciato il segno in me: è stato un lento fiorire, una maturazione progressiva, che mi ha portato ad entrare sempre più a fondo nella vita della Chiesa, a ricevere una formazione teologica, fino a scoprire che –nella ricca varietà della tavolozza ecclesiale– avrei potuto trovare il mio “ubi consistam” nella vita monastica.

Collegandoci alla sua ultima affermazione, brevemente, come definirebbe il monachesimo?
«Il monachesimo, in fondo, non è altro che la vita cristiana, radicata nel battesimo, vissuta nel celibato e in senso a una Comunità, come spazio di ascolto e di accoglienza, in disparte, ma senza fuggire la compagnia degli uomini.
Per quanto concerne la fruizione dei testi, i libri che scrive sono molto specifici; ritiene, invece, meritino essere letti anche da laici o non credenti?
Indubbiamente, alcuni miei scritti sono legati alla ricerca accademica o ambiti disciplinari abbastanza specialistici. I due testi più recenti,“Nudità della Parola” e“Una gioia provata”, per contro, sono nati da alcune meditazioni tenute oralmente, destinate a un pubblico piuttosto eterogeneo. Queste pagine recano, inevitabilmente, il segno della mia biografia e del mio contesto, ma è pur vero che affrontano alcune
questioni che non sono appannaggio esclusivo dei credenti: la gioia e la felicità coniugate nel quotidiano, il pianto e la consolazione, i paradossi del vivere, l’interrogazione della morte, il desiderio e la fiducia. Certo, questi argomenti sono letti alla luce della figura di Gesù di Nazareth, cioè della storia di quel “radicalmente
Altro” che si è fatto uomo, e che quindi può ancora avere –dopo 2000 anni– un messaggio da trasmettere anche all’uomo contemporaneo, credente o dubbioso, inquieto o in ricerca. Nel contempo, mi sforzo di ascoltare anche altre voci come quelle di scrittori e poeti che ci narrano, in altro modo, “mestiere di vivere” che ci accomuna tutti. D’altronde, non c’è vita cristiana senza vita umana».

Roberto Ratto